«Abbi fiducia nell’alba, non nel dolore»
L’esperienza della deportazione nelle memorie delle recluse nei campi sovietici
L’esortazione citata nel titolo era incisa, nella primavera del 1936, sul
muro della cella d’isolamento n. 20 della prigione
Špalerka
di Leningrado. La detenuta di quella cella, in quei giorni di aprile, era
Adda Vojtolovskaja. La frase, come racconta l’autrice, venne da lei
«scoperta» in un momento di cupa disperazione, dopo mesi di isolamento
durante i quali era stata sottoposta a pesanti interrogatori notturni [Vojtolovskaja,
65]. Quand’era ormai prossima al cedimento, questo messaggio di
speranza
da recluso a
reclusa le parve come un’ancora di salvezza, dandole la forza di reagire
all’ingiustizia e alla persecuzione, quella forza che, poi, le permise di
resistere alle dure condizioni del gulag. Indubbiamente un momento simile, o
nello spirito di questo, deve esser stato vissuto dalla maggior parte di
coloro che, scampati alla fucilazione o ad altri episodi di violenza bruta,
sono sopravvissuti e ritornati.
Un secondo momento determinante per la volontà di sopravvivere e la
preservazione della propria integrità spirituale, nonché della dignità
umana, è la volontà di
rendere
testimonianza.
Nelle condizioni sovietiche spesso non si tratta solo della reazione
«naturale», diremmo, all’orrore di una violenza perpetrata da un potere che
si percepisce per definizione altro da sé e ostile, legittimamente nemico;
si tratta, bensì, di una determinazione che matura all’interno di un
processo di rielaborazione della propria visione del mondo, in quanto una
larghissima parte delle vittime, o almeno di quelle che hanno lasciato
memoria, fino al momento dell’arresto si trovava in una condizione di
«lealtà» nei
confronti del potere che l‘avrebbe perseguitata,
condividendone nella sostanza gli ideali. Chi aveva un atteggiamento critico
o d’opposizione trovava nell’arresto e nella deportazione la conferma alla
natura dispotica del regime, ma tutti gli altri seguirono un percorso
abbastanza simile che li portò dalla convinzione di costituire un caso
particolare, un «singolo errore casuale» alla consapevolezza, quasi sempre,
ma non sempre, della mostruosità del sistema e, quindi, al raggiungimento di
un nuovo ideale di vita. In molti casi, la motivazione predominante alla
scrittura della memoria nasce proprio nel corso di questo travaglio
interiore e ripensamento dei propri convincimenti.
Le motivazioni che spingono in un secondo tempo il sopravvissuto a scrivere, a lasciare testimonianza sono in genere di due ordini: nella maggior parte dei casi si tratta della volontà cosciente di «ricordare», ossia di mettere a disposizione delle generazioni future la propria esperienza, affinché ciò più non avvenga; in altri casi la memoria ha un valore più intimo, quasi venga scritta per «dimenticare», ossia perché il suo estensore possa, in qualche modo, liberarsi da un incubo.
Nel primo caso la memoria tende ad una certa storicità, alla documentazione, come scrive, ad esempio, Nina Gagen-Torn.
Nel secondo caso la memoria è vissuta come esperienza individuale, un modo per preservare la propria dignità umana, una conferma alla propria esistenza: «Io sono il cronista della mia stessa anima. Niente di più», scriveva l’autore dei Racconti della Kolyma, lo scrittore Varlam Šalamov, il quale riteneva che non si potesse scrivere la «verità» sui campi e non considerava se stesso «uno storico dei campi». L’esperienza concentrazionaria era per lui trasmissibile solo attraverso l’«estetica della memoria», ossia l’artista poteva diventare testimone della propria epoca non in quanto raccontava ciò che aveva visto, bensì in quanto lo interpretava tramite lo strumento sensibile della sua anima. Ciò non toglie che anche in questo caso, secondo Šalamov, la memoria abbia valore documentale, sebbene tenda a una particolare ricerca della verità non di tipo storico, bensì morale.
Fino agli anni novanta del secolo appena concluso le memorie dal gulag, i racconti dei sopravvissuti hanno costituito, per molto tempo, la fonte quasi esclusiva di conoscenza dell’universo concentrazionario sovietico. Perciò si deve essere particolarmente grati al coraggio individuale di coloro che hanno saputo scrivere le loro testimonianze pur in condizioni e in anni così difficili. Alcuni, come Evgenija Ginzburg o come Varlam Šalamov e, naturalmente, il più famoso Solženicyn, nonostante i concreti rischi di ritorsioni, scelsero di farle pubblicare all’estero, altri le conservarono gelosamente nei posti più impensabili.
Nina Gagen-Torn, ad esempio, racconta che aveva nascosto le poesie scritte durante il suo primo periodo di detenzione in un lager di Kolyma in alcuni barattoli di latta da conserva, sotterrati nello scantinato di casa sua e che, in conseguenza di una denuncia fatta da una persona che lei aveva messo a conoscenza di questo suo segreto, il fatto costituì uno dei capi di imputazione che le vennero mossi all’epoca del suo secondo arresto nel 1949. La maggior parte di tutta la memorialistica sul gulag è uscita dai nascondigli con l’inizio della perestrojka. Molto materiale inedito è conservato nei vari archivi dedicati alla memoria (Memorial, Centro Sacharov, solo per citarne alcuni dei più famosi) e, verosimilmente, molti documenti testimoniali restano ancora nelle mani dei sopravvissuti o dei loro familiari. Oggi, nelle nuove condizioni storiche e con l’apertura di gran parte degli archivi, è disponibile moltissimo materiale, sul quale già lavorano gli studiosi, tuttavia, la possibilità che si è aperta di accedere alle fonti documentali non inficia la fondamentale importanza della raccolta e della pubblicazione delle memorie che sia ancora possibile reperire, nonché della loro analisi, in quanto nessun documento ufficiale, nessuna delibera, nessuna statistica potrà mai rendere ciò che la memoria consegna alla riflessione, ossia il vissuto umano.
In un recente studio, ampio, documentatissimo e molto interessante, Anne Applebaum dedica un capitolo alle donne e ai bambini. Il capitolo occupa lo spazio di 25 pagine su un totale di oltre 650 pagine di testo; di queste 25 pagine una decina sono propriamente riservate alle donne (molto si parla dei rapporti amorosi dietro il filo spinato), le rimanenti ai bambini e adolescenti [Applebaum, 329-354]. La condizione di questi ultimi nei campi era a dir poco tragica e, fino ad oggi, è stata quasi ignorata, sebbene meritevole di uno studio approfondito, ma attenzione altrettanto scarsa è stata riservata alla condizione delle donne nel gulag, e anche questa andrebbe analizzata più a fondo.
“Dovevano
realizzare la stessa norma e mangiavano la stessa zuppa acquosa; vivevano
nello stesso tipo di baracche e viaggiavano negli stessi carri bestiame. I
loro vestiti erano quasi uguali, le loro scarpe altrettanto inadeguate.
Durante gli interrogatori non venivano trattate in modo diverso. Eppure, le
esperienze delle donne nei campi femminili non sono affatto identiche a quelle
degli uomini nei campi maschili.
Di certo molte sopravvissute alla prigionia sono convinte che il loro sesso
fosse molto avvantaggiato nel gulag. Le donne si curavano di più, rappezzavano
gli abiti e si lavavano i capelli. Sembrava riuscissero meglio a restare in
vita con quantità di cibo inferiori e non soccombevano con tanta facilità alla
pellagra e alle altre malattie da malnutrizione. Stringevano forti legami di
amicizia, e si aiutavano tra loro molto più degli uomini. […]
Ciononostante, molti sopravvissuti maschi pensano l’esatto opposto, e cioè che
dal punto di vista morale le donne si degradassero più in fretta degli uomini.
Grazie al loro sesso, avevano maggiori possibilità di essere assegnate a
lavori più ambiti e meno pesanti, e quindi di godere di una posizione migliore
nella gerarchia del campo. Questo le disorientava, perché perdevano i punti di
riferimento necessari nel duro mondo dei campi di detenzione” [Applebaum,
329-330].
L’argomento è certo tra i più delicati da trattarsi, poiché se è vero che le donne che hanno lasciato memorie scritte tendono a porre l’accento sui legami di solidarietà che hanno permesso a loro stesse e alla cerchia delle loro amiche di sostenersi nei lunghi anni di prigionia, il problema emerge anche dalla memorialistica femminile, essendo strettamente connesso all’esercizio della violenza nel gulag. A prescindere dalle fucilazioni arbitrarie, che nei periodi più bui hanno avuto dimensioni di massa, come ad esempio a Vorkuta nel 1936-37 o alla Kolyma nel 1938, e che in ogni modo hanno riguardato in minima percentuale le donne, la violenza sessuale, sia come manifestazione di brutalità fisica che come risultato di una pressione psicologia, era certamente la forma più diffusa di violenza nei confronti delle donne. Nessuna delle memorialiste tace su questo problema. Elinor Lipper, in una delle prime memorie sul lager, scrive:
“La maggior parte dei prigionieri si lascia indurre ad una relazione più per fame che per amore. «Burro, zucchero, pane bianco» è la formula introdotta dalle criminali, invece di «ti amo». E non le sole criminali si potevano comperare, ma, durante la guerra e il dopoguerra, anche donne un tempo rispettabilissime si vendevano per un mezzo chilo di pane nero” [Lipper, 151].
Straordinaria è, invece, la circostanza che, sebbene a scrivere le memorie siano state donne dalla formazione e dalla cultura più disparata (giovani o mature, russe o non russe, con un’esperienza politica e carceraria alle spalle oppure prive di qualunque esperienza), si nota una sostanziale identità d’impostazione nell’affrontare questo spinoso argomento. Sulla base del materiale memorialistico di cui si dispone si possono individuare alcune tipologie del comportamento delle deportate e di giudizio su di esso.
Al gradino più basso stava il mondo delle delinquenti comuni, le cui regole di condotta e il cui linguaggio tanto sconvolgevano le detenute politiche. L’incontro tra questi due mondi separati è sempre descritto in toni drammatici. Per Evgenija Ginzburg esso avvenne sulla nave che da Vladivostok la portava a Magadan:
“Eravamo convinte che nella nostra stiva non ci sarebbe più stato posto neppure per un gattino e invece vi sistemarono alcune centinaia di esseri umani, se così si possono definire quelle creature dell’inferno che all’improvviso irruppero attraverso il boccaporto. Non erano comuni malviventi, bensì il fior fiore del mondo della delinquenza: recidive, omicide, sadiche, maestre in perversioni sessuali. […] Quando irruppe nella stiva quel miscuglio di corpi seminudi, tatuati e di musi scomposti in smorfie scimmiesche, pensai che avessero deciso di farci sterminare da una folla di pazze furiose.”
D’altro canto, è noto che sia nei campi femminili che in quelli maschili l’amministrazione usava normalmente i delinquenti comuni per dominare meglio, o più semplicemente per tormentare di più, la grande massa dei deportati in base all’art. 58 del codice, ossia tutti i politici. Nella cerchia delle delinquenti comuni anche all’interno del campo la vita sessuale delle recluse, fossero etero- od omosessuali, era regolata dagli stessi rapporti che la regolavano al di fuori del campo: le malavitose si sottoponevano rassegnate alla legge del più forte, fosse esso un uomo o una donna-maschio; le prostitute non trovavano ostacoli, nonostante le apparentemente ferree regole che non avrebbero dovuto consentire nemmeno la più piccola occasione di contatto tra uomini e donne, nel continuare ad esercitare il loro mestiere, anzi spesso godevano della diretta complicità dei dirigenti del campo.
A dire il vero, protettori tanto intraprendenti erano piuttosto rari, nella maggior parte dei casi la prostituzione veniva esercitata sotto la forma di un brutale scambio di merce e nelle condizioni logistiche più squallide. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, gli uomini cercavano sempre di «reclutare» nuove prede. Si trattava per lo più di donne giovani, spesso poco più che ragazzine, che erano finite nel gulag come «politiche», sebbene non avessero nulla a che fare con la politica nel senso proprio del termine. Soprattutto durante la guerra venivano accusate di «sabotaggio», reato colpito dal famigerato art. 58, le donne che si erano allontanate dal lavoro senza permesso o che avevano «rubato» un pezzo di pane, oppure, in qualunque epoca, venivano accusate di «spionaggio» tutte le donne che avevano avuto un qualche rapporto con stranieri. La maggior parte di queste donne sopportavano con dignità la loro nuova condizione, ma molte ebbero un cedimento vuoi a seguito di un atto di violenza carnale vero e proprio, vuoi a seguito della predisposizione a subire una violenza psicologica in una condizione di fame endemica. Questo tipo di donne corrisponde alla seconda tipologia, tra quelle che abbiamo individuato: persone comuni che nel lager si degradano fino al livello più basso. Racconta Ekaterina Olitskaja:
“Tra
le detenute comuni era molto diffusa la prostituzione, ma anche tra le
condannate in base all’articolo 58, la percentuale di quelle che avevano un
amico o un protettore era abbastanza alta.
In un primo tempo nella regione di Kolyma venivano deportati soltanto uomini,
poi vennero anche le donne, ma la loro percentuale era molto bassa. Il prezzo
della donna era altissimo. Per possedere una donna gli uomini erano pronti a
trasgredire ogni regola, a compiere qualsiasi delitto. Le donne venivano
rapite, violentate, e abbandonate sul ciglio delle strade. Vi furono casi in
cui le donne venivano sottratte alla scorta armata e portate nelle miniere,
dove una folla di uomini in fila era ad attenderle. La violenza collettiva su
una donna veniva chiamata «tramvai».
Il mese dopo feci conoscenza con Anja. Lavoravamo nella stessa brigata. Nel
1938 lei era stata deportata a Kolyma in base all’articolo 58. I comuni se la
giocarono a carte. Il perdente doveva acciuffarla e consegnarla ai compagni.
Durante il lavoro attirarono Anja in un angolo nascosto e lì dodici uomini la
«utilizzarono». La sera, quando radunarono le donne per ricondurle in zona, si
accorsero dell’assenza di Anja. Dopo qualche ricerca, la trovarono in
condizioni spaventose e più morta che viva. All’infermeria, contro ogni
aspettativa, si riprese. Tentò di uccidersi più di una volta e ogni volta fu
salvata. Tutti conoscevano la storia di Anja. Dicevano che era cambiata
moltissimo dopo quello che le era successo. Quando la conobbi io, era calma,
fredda, ostile verso tutti, disprezzava gli uomini e le donne. Indossava abiti
volgari e provocanti, si truccava gli occhi, le sopracciglia, le labbra. Alla
mensa veniva di rado. Cedeva alle compagne senza chiedere nulla in cambio la
sua razione di pane e distribuiva generosamente ghiottonerie d’ogni genere.
Non so se avesse un amico o più di uno” [Olitskaja, 323-324].
Generalmente queste donne, anche quelle che non avevano vissuto un’esperienza così drammatica come quella di Anja, non suscitavano un sentimento di disprezzo nelle altre donne, ma semmai di commiserazione ed è questo sentimento che è dominante nella memorialistica femminile:
“Il
più delle volte questi compratori se ne andavano con le pive nel sacco. Ma
qualche volta l’affare si combinava. Amaramente, certo. Avveniva così, a poco
a poco: da principio lacrime, paure, turbamenti. Poi, apatia. E la voce dello
stomaco si faceva sentire sempre più forte, anzi, più che dello stomaco, la
voce di tutto il corpo, di tutti i muscoli, perché era una fame trofica, che
disgregava l’albumina. A volte era anche la voce del sesso, che si
risvegliava, nonostante tutto. Ma soprattutto era l’esempio della vicina di
tavolaccio, che ingrassava, si rivestiva, cambiava le scarpe di corda, umide e
sbrindellate, con dei caldi
valenki.
È difficile capire fino in fondo come un uomo, spinto da forme di vita
disumane, a poco a poco perda la comune concezione di ciò che è bene e ciò che
è male, di ciò che è concepibile e ciò che non lo è. Ma è così” [Ginzburg, II,
14-15].
Non suscitavano alcuna forma di pietà, invece, le donne che appartenevano a quella che si potrebbe considerare la terza categoria della nostra analisi, donne in cui l’istinto della sopravvivenza fisica si sposava a quello della «sopravvivenza» ideologica. Erano queste le donne, comuniste convinte, ex dirigenti del partito, dell’industria o delle istituzioni sovietiche, che non volevano ammettere nemmeno davanti a se stesse la nefandezza di tutto il sistema fuori e dentro il campo di concentramento, che continuavano persino di fronte alla più lampante evidenza a credere nella spiegazione delle «schegge che volano quando si taglia il bosco», che riguardava solo la loro persona e pochi altri. Nel campo assumevano il ruolo delle collaborazioniste, si mettevano con i dirigenti, con i quali talvolta allacciavano anche una relazione di carattere sessuale, ma sempre operavano a danno delle altre deportate. Queste donne rappresentavano per le detenute politiche il massimo dell’abiezione morale e, come tali, vengono descritte nelle memorie. Loro, queste persone, in genere non hanno lasciato memorie. Quello che sappiamo di loro, lo sappiamo attraverso i racconti dei memorialisti, i quali testimoniano come abbiano subito la sorte peggiore all’interno dei campi, vuoi perché la mancanza di una resistenza psicologica ne ha minato la capacità di resistere fisicamente, e perciò sono morte, vuoi perché la cieca fede nel regime le ha portate a mettersi a disposizione dell’apparato repressivo e, con ciò stesso, le ha spinte al cedimento morale. Adda Vojtolovskaja, ad esempio, riporta con indignazione che nel 1964 le «Izvestija» dedicarono un articolo d’encomio ad una certa Zinaida Nemcova, che era stata una dirigente del partito di Leningrado. Il suo comportamento durante l’inchiesta e nel gulag è così ricordato dalla memorialista:
“Per
chiunque è difficile accettare che ora la tua vita è questa: pigiata dentro
una cella e sotto indagine, visto che, soprattutto, a venir arrestate erano
donne che costituivano il nerbo creativo della società, donne abituate a una
vita impetuosa e intensa. Per l’ultraortodossa Nemcova, che occupava un posto
di comando, il colpo fu ancor più duro. Solo ieri era lei a decidere chi sì e
chi no, e oggi qualcuno aveva deciso di farla scendere dalla giostra. Con ogni
suo gesto, con ogni sua parola la Nemcova marcava e dichiarava la propria
ortodossia di partito e la propria irreprensibilità. Non si poteva negare la
sua fermezza e nemmeno una sincerità di tipo particolare in lei. […] Se
qualcuna era chiamata all’interrogatorio, Zinaida sollevava dal cuscino la sua
piccola testa con i verdi occhi da serpente e dalle sue strette labbra
caparbie usciva un sibilo: «Sii sincera fino in fondo, non dire mezze verità;
fatti guidare dalla coscienza di partito, renditi utile al partito». I suoi
ragionamenti non erano privi di un’arida logica pragmatica: pensava che gli
arresti e le repressioni fossero giusti. Nella sua logica, però, c’era una
breccia, che la rendeva vulnerabile: tutti erano stati arrestati giustamente,
tranne lei, la Nemcova. […]
Nelle condizioni del campo la sincerità fu rimpiazzata da un arido
dottrinarismo, la «coscienza di partito» dall’opportunismo. Nel campo la
Nemcova divenne il braccio destro dell’«educatore» (c’era una figura simile
in ogni campo o «sezione staccata»). La funzione era in sé abietta e, per
giunta, la persona che la ricopriva nel campo di Kočmes era losca e
abominevole. Tuttavia, la Nemcova trovò un linguaggio comune con lui. Le sue
funzioni consistevano nel passare informazioni sullo stato d’animo dei
prigionieri. La sua volontà di giustificare a tutti i costi quello che stava
accadendo l’aveva portata dritta dritta a diventare una spia e l’aveva messa
contro i detenuti.” [Vojtolovskaja, 75]
Secondo quanto riferiscono i memorialisti, il suicidio, o almeno il tentativo di suicidio, in quanto la promiscuità spesso ne impediva la realizzazione, era piuttosto frequente sia come gesto di totale disperazione che come forma estrema di protesta e di esercizio dell’ultima libertà rimasta. Nelle donne esso poteva assumere una forma del tutto particolare, come confermano i casi di quelle prigioniere che si «buttavano via», per lo più rendendosi vittime consapevoli della violenza maschile. Un caso di questo tipo, quello dell’operaia Michalina Kotiš, è raccontato da Adda Vojtolovskaja, che l’ebbe come compagna di viaggio nel convoglio che le portava nell’estremo nord.
“Era
una donna dal carattere deciso, che sembrava comportarsi come se non fosse
successo nulla e continuava a conservare un atteggiamento da militante di
partito, ma che spesso sedeva per ore a fissare il vuoto. Ad un cero punto si
offrì volontaria per andare a fare da cuoca ad un gruppo di delinquenti comuni
recidivi che venivano mandati nel fitto del bosco al taglio del legname:Era
chiaro a tutti a che cosa si condannava. Non tollerava la compassione. Mi era
estranea e io a lei, tuttavia, era evidente che nel suo intimo c’era un
profondo senso di disperazione. Nelle ultime settimane era diventata tutta
grigia.
«Michalina», le chiesi, «perché ci vai? Resta qui».
«Non resterei per nulla al mondo! Non è lo stesso dove si va a crepare? Non
ho nessuna voglia di star qui a leccarmi le ferite con voi. Non serve a
niente! Là sarò utile agli uomini! E perché poi dovrebbero essere peggiori di
voi?»
Così partì con i criminali per la taiga e fu come spazzata via dalla marea
umana. Nessuno ebbe più notizie di lei.” [Vojtolovskaja, 85]
Infine, non era raro che tra detenute e detenuti nel campo nascessero autentiche storie d’amore. Molti di loro si rendevano presto o tardi conto che il ritorno sarebbe stato loro impedito per sempre. Molte donne imparavano ben presto che la condanna a «dieci anni senza diritto alla corrispondenza», comminata ai loro mariti, significava che erano stati fucilati. Molti detenuti venivano rinnegati dai rispettivi consorti. Quando, dopo aver scontato la condanna, gli ex detenuti scoprivano che la «libertà» significava obbligo di confino perpetuo, contraevano spesso matrimoni «d’interesse» che, nel tempo, potevano anche trasformarsi in solide unioni. Secondo le leggi del lager, l’amore era un sentimento bandito e severamente proibito, ma, quando sbocciava, era un sostegno formidabile alla capacità di resistere.
Si è reso doveroso e indispensabile chiarire i punti che, aldilà dello stile e dell’impostazione di ogni singola memoria, possono essere considerati caratteristiche comuni delle memorie lasciate dalle donne rispetto alle peculiarità della condizione femminile nel gulag. Le memorialiste sono ben consce del fatto che molte donne sono sopravvissute al gulag a caro prezzo, ma questo non inficia affatto il quadro che emerge dalle memorie femminili. Da questo quadro risulta, in modo limpido, che i rapporti d’amicizia e solidarietà, la possibilità di confrontarsi sugli eventi e sostenersi materialmente e moralmente, l’abitudine a parlarsi e confrontarsi sono stati gli elementi fondamentali che hanno loro consentito di superare l’esperienza concentrazionaria. È significativo che questi stessi aspetti siano sottolineati anche da Margarete Buber-Neumann, che ha subito la prova sia dei campi sovietici e di quelli nazisti, come validi in entrambe le situazioni concentrazionarie:
“Sono sopravvissuta alla Siberia e a Ravensbrück non tanto perché ero una persona particolarmente forte dal punto di vista fisico e nervoso, e neppure perché ho mai abbassato la guardia al punto di perdere il rispetto di me stessa, quanto grazie al fatto di avere sempre incontrato persone che avevano bisogno di me e, facendomi sentire necessaria, mi gratificavano delle gioie dell’amicizia e del contatto umano.” [Buber-Neumann, 212]
Si può, in ogni modo, osservare che nessuna delle autrici consultate ammette di aver subito una violenza, ma alcune raccontano di essere state oggetto di tentativi di violenza, dai quali si sono in extremis salvate. Molte di loro, invece, hanno vissuto storie d’amore, incontrando nel gulag o al confino quello che sarebbe diventato il loro secondo marito. Fare chiarezza su questo punto è fondamentale per un discorso che vada a toccare la questione dell’attendibilità e dell’oggettività delle memorie.
Attendibilità e oggettività delle memorie sono problemi che attengono in ogni caso alla natura del genere della scrittura memorialistica e che, però, le circostanze particolari della vita nel gulag rendono più acuto. Il forzato non aveva quasi mai la possibilità di tenere un diario, di conservare degli appunti o una qualunque cosa di tangibile. Le memorie, invece, sono state scritte dopo il ritorno, talvolta molti anni più tardi, da persone che, in alcuni casi, avevano trascorso nei lager anche 17-18 anni. Eppure sono ricchissime di avvenimenti precisi, nomi, storie personali dei compagni di sventura incontrati moltissimi anni prima e mai più rivisti; e tutto questo viene riportato talvolta con un’oggettività impressionante, talvolta con «errori» molto significativi. Sotto questo profilo la studiosa Irina Ščerbakova mette a confronto due episodi illuminanti. Il più drammatico riguarda la testimonianza orale, raccolta da lei direttamente, di una certa Raisa P., una donna che era stata fatta prigioniera dai tedeschi e che, per questo motivo, al suo ritorno in patria era stata condannata al lager.
“Questa donna per tutti gli anni della prigionia e successivamente, dopo che era stata rimessa in libertà, aveva retto psicologicamente grazie alla convinzione di avere sì, durante l’inchiesta, «confessato», come facevano quasi tutti, ma di avere, alla fine, rifiutato di firmare la propria fasulla confessione. Negli anni novanta volle andare a verificare di persona gli atti giudiziari che la riguardavano e, scoprendo che la memoria l’aveva «tradita» e che anche lei aveva firmato la confessione, ebbe un crollo psicologico.” [Ščerbakova, 200]
L’episodio più significativo riguarda, invece, Evgenija Ginzburg.
“Molti anni dopo la stesura delle memorie, nelle quali l’autrice riportava dettagliatamente le domande che le erano state rivolte durante l’inchiesta e le risposte che aveva dato, queste sono state confrontate, alla apertura degli archivi, con i verbali degli interrogatori del suo caso e si è scoperto che l’autrice, ormai scomparsa, aveva ricordato con estrema precisione le varie fasi dell’inchiesta.” [Ščerbakova, 190]
D’altro canto, era stata la stessa Ginzburg a fare luce sui meccanismi che hanno reso possibile una tale fedeltà dei ricordi.
Non tutte le memorialiste manifestano eguale sicurezza circa l’oggettività delle proprie memorie:
“queste mie note non rappresentano una “verità oggettiva”. Ho scritto ciò che s’è impresso nella mia memoria e secondo il modo in cui esso effettivamente si è impresso” [Olitskaja, 5]
Ammette un'ex deportata nella premessa alla sua opera. La Ginzburg, tuttavia, tocca un altro punto essenziale riguardo alla memorialistica sui campi. Per le condizioni che si sono ricordate, infatti, assume un’importanza rilevante la capacità di esercitare la memoria nel gulag. La determinazione a ricordare, fin dal momento in cui si viene privati della libertà, al fine di rendere testimonianza è comune a molti memorialisti e, soprattutto nelle donne, essa si associa alla capacità di scrivere versi. Anche Nina Gagen-Torn attribuisce un’importanza fondamentale a questo tema, che sviluppa in modo particolarmente interessante. Sopravvivere al gulag, afferma, era possibile solo se si era in grado di «evadere» dal lager nello spazio e nel tempo, ossia se si era in grado di sovvertire le normali concezioni di spazio e tempo.
In ogni caso, la memoria che veniva esercitata nel gulag doveva essere selettiva, non doveva toccare corde troppo personali, per non compromettere l’equilibrio psichico del recluso.
Se misurate in base alla scarna traccia dei fatti raccontati, le memorie delle internate nel gulag, così come quelle dei loro sventurati compagni maschi, sembrano tutte uguali, ripercorrono tutto il calvario tipico del deportato: l’arresto e l’illusione che l’equivoco sarebbe stato presto chiarito; il dolore per la separazione dai familiari; l’impatto con la prima cella, l’isolamento e i primi compagni di sventura; l’inchiesta e le torture sia psicologiche che fisiche, la sbrigativa condanna, la prigione in attesa di essere trasferiti al campo; la traduzione in vagoni stipati e le penose condizioni di tutto il lungo trasferimento; l’arrivo nel campo; tutte le fasi della vita in esso: la conta, la baracca, il lavoro e la norma produttiva, il cibo, il bagno, la violenza, l’ospedale; ma anche l’attesa della liberazione, talvolta la nascita di un nuovo amore, la liberazione, il confino, il ritorno spesso in condizioni di clandestinità, le difficoltà di riallacciare i rapporti con il mondo di fuori e, infine, altrettanto frequentemente, il secondo arresto (moltissimi, infatti, furono i «ripetenti», ossia coloro che subirono una seconda condanna). E via via, fino alla morte di Stalin e al ritorno definitivo.
Da un certo punto di vista, le memorie rappresentano una sorta di «ipertesto comune» [Ščerbakova, 198], ma ciò è vero solo in un senso, quello, appunto, della successione degli eventi vissuti dal condannato. Nella realtà, invece, esse non sono affatto tutte uguali e, sebbene anche quest’aspetto sia rilevante, le diversità non stanno certo nella maggiore o minore dimestichezza che con la penna possano aver avuto i loro estensori. Un criterio di diversificazione delle memorie è rappresentato dal sesso del loro autore. Come già si è notato, infatti, che è caratteristico delle donne un diverso approccio a tutte le problematiche poste dall’esperienza del gulag. Sicuramente esiste una relazione, come concorda la maggior parte delle fonti, tra il modo con cui le donne hanno affrontato l’esperienza del gulag e il fatto che tra esse si sia rilevato un più alto tasso di sopravvivenza e in condizioni migliori. Il problema è, semmai, di cercar di capire se questa sia stata una relazione di causa o d’effetto. Probabilmente il minor numero di vittime registrate non dipende dal fatto che, tra i reclusi, la percentuale delle donne fosse decisamente inferiore e neppure dal fatto che alle donne fossero assegnati lavori «più leggeri»: se è vero che non venivano utilizzate nelle miniere, è pur vero che erano comunque impiegate in lavori molto pesanti, come il taglio del bosco, lo sterro, i lavori edili, che erano spesso resi insopportabili dalle proibitive condizioni climatiche, dalla lunghezza della giornata lavorativa e dall’alimentazione insufficiente. Ancora Irina Ščerbakova, nel suo prezioso saggio che è forse l’unico contributo che tenta un’analisi sistematica sull’argomento, scrive che i sopravvissuti, nel tentativo di spiegare le ragioni che hanno consentito il loro ritorno, tendono a dare tre tipi di risposte: la purezza ideologica che alla fine ha trionfato, la straordinaria forza morale del singolo, la fortuna. Quest’ultima risposta è, a parere della studiosa, la risposta più sincera [Ščerbakova, 199].
Ora, è innegabile che in situazioni in cui il mondo sembra regolato dalle leggi dell’assurdo, come quelle tipiche del sistema concentrazionario sovietico, il caso (la fortuna) abbia avuto una parte importante. Certamente, tuttavia, rilevante è stata anche la capacità dei singoli di opporre resistenza, la volontà di non lasciarsi andare, preservare la propria dignità umana. Nel caso delle donne si può senz’altro affermare che, rispetto agli uomini, la maggiore resistenza psicologica del singolo è stata supportata dalla capacità di non isolarsi, di non chiudersi in se stesse, che è diventata anche la ragione principale, e generalmente riconosciuta, della loro più alta sopravvivenza. Nel gulag le donne instauravano più facilmente degli uomini rapporti d’amicizia e di solidarietà di gruppo; più degli uomini conservavano un legame forte con il passato, la famiglia e, soprattutto, i figli, che costituivano anche la principale ragione della volontà di sopravvivere per poter tornare da loro. Si può dire che lo spirito della maternità costituisca l’asse portante dei memoriali scritti dalle donne, nei quali la detenuta-autrice si presenta spesso nel doppio ruolo di figlia e di madre.
Anche nelle memorie di Olga Adamova-Sliozberg spicca la figura della madre, una donna mite che però non si arrese e, nonostante il rischio fortissimo di essere a sua volta arrestata, continuò a battersi per la revisione del processo della figlia e per la sua liberazione. A volte, il legame con la madre o con la figlia assume una sfumatura mistica, a testimonianza di quanto i legami forti potessero rivelarsi fondamentali per la resistenza. Soprattutto, però, le ex deportate, nelle loro memorie fanno riferimento al proprio ruolo di madri e, in particolare, alla loro maternità negata, che si manifesta in un modo del tutto speciale. Parlare dei loro figli, del dolore della separazione e dell’angoscia per il loro destino di ragazzi abbandonati, fa troppo male. Certo, le memorialiste ne parlano, ma con una sorta di pudore, come trattenendosi. Si crea, allora, come un vuoto, che viene riempito dalla raccolta di innumerevoli episodi, storie di madri e di figli con cui le autrici si sono incontrate o delle quali hanno sentito raccontare. In questo senso le singole memorie cessano di essere una testimonianza individuale e, prese nel loro insieme, funzionano davvero come ipertesto, come testimonianza di una tragedia collettiva.
Naturalmente, questo vale non solo per il tema della maternità, né solo per la specificità femminile delle memorie. Tutti i memoriali presentano questa caratteristica, che del resto è insita nelle peculiarità del genere (chi racconta di sé, si vede inserito in uno o più gruppi sociali più o meno ampi e con essi o con i singoli si confronta). Semmai sono diversi gli spaccati che di questa tragedia collettiva emergono dalle memorie degli uomini e delle donne. Nelle prime si fa maggiormente leva sulla violenza, sull’abrutimento, sulla lotta contro tutti dell’individuo che pensa solo a salvare se stesso e, tuttalpiù, a non nuocere agli altri. Nelle seconde più sui temi intimi, anche se vissuti specularmente nelle storie degli altri, e sulla solidarietà. Nelle memorie delle donne si nota, infine, una maggior propensione alla ricerca delle motivazioni, un maggior bisogno di rendersi conto del perché degli eventi, mentre nelle memorie degli uomini è più forte lo spirito di contrapposizione e di negazione.
Tutto questo costituisce ancora solo un primo approccio al problema. Come s’è detto, in una prima fase la nostra conoscenza del gulag fu affidata solo alle testimonianze delle vittime e, poiché, come è ben noto, proprio in quella prima fase l’umanità si dovette scontrare anche con i tentativi di negazione del fenomeno dei campi di lavoro, possiamo affermare con Todorov che la memoria ha vinto la sua battaglia sul nulla [Todorov, 147].
Rielaborazione del testo di Emilia Magnanini
(tratto da: www.venus.unive.it)