Poesia
dell’indicibile:il lager nella letteratura
Ha scritto il filosofo tedesco Adorno che «dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia», a sottolineare il significato di cesura che l’aberrazione morale della Shoah rappresenta per la storia dell’umanità a tutti i livelli, etico, sociale, politico, ma anche, appunto, filosofico e letterario. A queste parole risponde un’affermazione di Primo Levi, superstite di Auschwitz, che sostiene viceversa proprio la necessità della parola, il dovere di raccontare, continuamente, l’Olocausto: «La mia esperienza è stata opposta, in quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz».
Quello di Levi è un vero e
proprio imperativo categorico e morale, che sancisce il dovere del reduce
alla testimonianza: l’esperienza del singolo deve porsi al servizio della
memoria collettiva, per fare luce sulla cicatrice più significativa della
società contemporanea.
Ripercorrere la letteratura su Auschwitz significa allora accettare il
paradosso racchiuso tra queste due espressioni: esaminare le diverse
possibili forme di racconto dell’indicibile, portando con sé la
consapevolezza, però, come dice Levi ne I sommersi e i salvati
(l’ultima sua opera, punto di arrivo della sua riflessione sulla Shoah):
«La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata
nessuno, così come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte».
Alla descrizione minuta delle vicende del campo si affiancano riflessioni in
tono più meditativo, che cercano di trovare un impossibile
“perché”
a quello che si è vissuto. L’urgenza
della rivelazione cede quindi progressivamente il passo a un’esigenza più
sottile e nello
stesso tempo più difficile da placare:
descrivere il
lager implica progressivamente sempre più indagare le radici stesse dell’agire
umano, per comprendere come Auschwitz sia stata possibile.
Quello dei testimoni è insomma come un ruolo allo stesso tempo scomodo e
necessario, perché al dovere (fisico e) morale di raccontare la propria
esperienza si sovrappone la difficoltà di accettare fino in fondo, una volta
rientrati nel mondo, la propria identità di reduce. Non è un caso allora che
molti testimoni tornino a riflettere (o si interroghino per la prima volta)
sulla propria esperienza anche a molti anni dalla liberazione, con un processo
di rielaborazione narrativa che accomuna, anche in questo caso, opere di
scrittori apparentemente distanti.
Cambia
anche, di conseguenza,
il rapporto tra
narratore e lettore: il
destinatario di queste opere, infatti, non è più un pubblico ignaro e ansioso
di sapere, ma, al contrario, è composto da un insieme di
persone informate
e consapevoli,
che implicitamente condivide lo stesso sistema di valori di chi parla. Del
resto, fitta è la schiera di narratori che tornano a parlare della loro
esperienza (o per la prima volta scelgono di renderla pubblica) dopo molti
anni. Solo del 1970 è, per esempio, Un treno senza ritorno, di Charlotte Delbo,
che racconta la sua storia di internata n. 31661 nel lager femminile di
Auschwitz.
Il libro (che riprende in forma più esplicitamente narrativa materiali
contenuti in un altro suo testo, Le convoli du 24 janvier – del 1965 –
dal giorno, appunto il 24/01/1943, della sua deportazione) si rivela
particolarmente significativo sia per la peculiare prospettiva (quella di una
donna, combattente nella Resistenza francese), sia per la capacità di
ridestare nel lettore, anche a distanza di anni, tutta la vastissima gamma
delle sensazioni al di là dell’umano che si possono provare solo «di fronte
all’estremo».
Primo Levi:
«È avvenuto, quindi può accadere
di nuovo: questo è il nocciolo di
quanto abbiamo da dire».
Analisi tratta dall’articolo
di ORSETTA INNOCENTI
“Patria Indipendente”,19 gennaio 2003