"Una minuscola fiamma protetta con
cura contro la bruta violenza delle tenebre che la circondano.”
I libri di Sima
Vaisman, Liana Millu, Claudine Vegh
L’inferno sulla terra. La testimonianza di una dottoressa deportata ad Auschwitz di Sima Vaisman è l’ultimo libro edito da Giuntina sulla memoria della Shoah. L’autrice, originaria della Bessarabia (Moldavia), si trasferì negli anni ’30 in Francia dove, rimasta vedova, continuò a esercitare la professione di dentista. Nel 1942 fu arrestata nei pressi di Lione e deportata ad Auschwitz. Scrisse di quell’orrore subito dopo la liberazione, ma, come spesso avvenne in questi casi, il manoscritto fu scoperto da una cugina soltanto nel 1983 e affidato alla pubblica lettura soltanto nel 1999, due anni dopo la morte dell’autrice. Righe possenti, penetranti tanto sono scarne, e ossessive nel riproporre immagini e odori altrettanto ossessivi. Colpisce, infatti, come la descrizione, senza pathos ma rigorosa quasi estraniata, si appunti inevitabilmente sulla desolazione dei luoghi e dei corpi, e sul loro fetore. Fin da subito. Fin da quando, cioè, ha inizio il lungo viaggio su pagliericci sporchi, escrementi che fuoriescono dal bugliolo. Poi il fango del campo, la nudità dei corpi ancora più nudi dopo la rasatura e quella delle baracche dal pavimento di mattoni rossi su cui si ergono su due lati letti a castello o meglio tante «gabbie per conigli». E ancora escrementi, che si perdono per strada o dentro «stracci luridi e puzzolenti» che chiamano coperte. Alcune non sopportano e si gettano sul filo spinato elettrificato che circonda il campo. Scoppia una epidemia di tifo, molti medici muoiono e Sima viene chiamata al Revier. Qui tutto è nero e sporco, di sangue, di pus. Odore di escrementi, odore di corpi in putrefazione, divorati da scabbia, foruncoli, pidocchi che si annidano persino sotto le fasciature. I casi di follia si moltiplicano. E le morti pure. E chi non ce l’ha fa da sola, diventa buona per la selezione. Sima fa quello che può, ma le medicine non bastano e comunque molto spesso non servono. Il 16 maggio ’44, viene mandata al campo di Brezinski. Qui vede arrivare vagoni stipati di uomini, donne, vecchi e bambini. Sono i primi degli 800.000 ebrei ungheresi che verranno a morire da lì a settembre nelle camere a gas. Ma loro non lo sanno. Meglio se non lo sanno. Entrano nelle docce ed escono cadaveri per i forni crematori. E il commando di Sima smista le loro cose, mangia il loro cibo. Perché la fame è fame. Poi tocca agli zingari: 500 ragazzi tra i dieci e i quattordici anni. I loro giocattoli faranno brillare gli occhi dei figli delle SS. Intanto i russi avanzano e i campi vengono evacuati. Lunghe colonne si muovono lente in mezzo alla neve. Si raggiunge Ravensbrueck, poi Neustadt. Ovunque fame, punizioni, decessi, appelli. Fino al 3 maggio ’45, quando i nazisti si danno alla fuga e i prigionieri si gettano selvaggiamente sul magazzino viveri. Tutto questo Sima descrive senza mai parlare di lei. Mai una volta compare «io», sempre si ripete il «noi». A segnare non solo una comunanza di destino, ma una solidarietà che sola permise la sopravvivenza seppur di poche.
Il fumo di Birkenau
di
Liana Millu,
uscito la prima volta nel 1947, è stato
costantemente riproposto negli anni successivi. Si tratta di sei storie di
donne, storie disperate di donne piene di speranza. Già Primo Levi, nella sua
introduzione, collocava quella di Liana Millu «fra le più intense
testimonianze europee sul Lager femminile di Auschwitz-Birkenau» e riconosceva
come
la condizione delle prigioniere fosse peggiore di
quella degli uomini,
per vari motivi. Oggi, diciamo che non era né peggiore, né migliore,
semplicemente diversa perché
offendeva la donna in quanto
donna.
Anche in questo caso, l’autrice si eclissa,
o meglio diviene un occhio attento che annota e riporta con parole mai
ridondanti talune vicende, compresa la loro conclusione più spesso sottesa che
narrata. E le vicende sono quella di Lily, oggetto di attenzione da parte
dell’amante della Kapò e da questa condannata a morire. Lily è una giovane
ragazza che nella sua pervicace volontà di restare donna custodisce
il sogno d’amore,
«come unica cosa sua che poteva coltivare
gentilmente nel suo intimo;
una minuscola fiamma protetta con cura
contro la bruta violenza delle tenebre che la
circondano».
Il sogno l’aiuta a vivere, il gesto dell’uomo la farà morire.
Maria, invece, è entrata nel campo incinta. Ha nascosto a lungo, sotto le
fasce strette sul ventre, la gravidanza, decisa a portarla a termine,
assolutamente. Denunciata da una anziana prigioniera che la morte della figlia
ha reso ostile di qualsiasi altra giovane che sia ancora in vita,
morirà dissanguata
assieme al bimbo,
venuto alla luce in una notte infernale, nel lurido di una baracca gremita di
donne vocianti, senza né acqua né luce, aiutata dalla vecchia cui la
miracolosa nascita ha restituito d’un colpo la sua umanità. Bruna ha perduto
il figlio. Le è stato strappato all’entrata nel Lager e ora svuota i grossi
bidoni di immondizie e si indebolisce sempre di più. Qualcuna lo vede e
avverte la madre che si premura di raccattare quel poco di cibo, privandosene
ella stessa, che lo tenga in vita. Anche le compagne metteranno da parte un
boccone di pane per Pinin, «tanto la fame sarebbe stata sempre la stessa». Ma
Pinin viene messo nel blocco della quarantena e Bruna presa dall’ansia di non
poterlo vedere e sfamare smania sempre di più fino a che quel crescendo di
angoscia e tormento
si
stempera d’un tratto sul reticolato ad alta
tensione
dove le dita di madre e figlio si
intrecciano per l’ultima volta nell’ultimo istante di vita. Zina, la russa, si
intestardisce a voler aiutare nella fuga Ivan, che tanto assomiglia al marito
ucciso. Morirà di botte,
che tanto senza di lui la vita non ha senso. La
scelta di sopravvivere, prostituendosi, costa a Lotti la perdita affettiva
della sorella che pur giacendo sfinita nel Rivier non accetta i suoi doni.
Anche Lise è posta di fronte al medesimo dilemma: salvarsi tradendo il marito
o morire, abbandonarlo, per rimanergli fedele? Alla fine sulla promessa di
fedeltà prevale l’amore per l’uomo e la speranza di tornare insieme. Così
quella sera, «Lise tornò abbastanza tardi e, oltre al fazzoletto, aveva
trovato pane e un’armonica».
In Non gli ho detto arrivederci di Claudine Vegh, i figli dei deportati nei campi accettano di parlare, trentacinque anni dopo, della loro condizione. Diffusa è la sensazione di vivere «per caso», come «per caso» i loro cari sono morti. E quando non è stato il caso, interviene la «colpa». La colpa di non essere fuggiti, di non essersi nascosti, di non aver nascosto di essere ebrei, come confessa Madeleine: «Io gliene voglio a mio padre, gliene voglio di essersi fatto deportare senza aver tentato di sfuggire alla sua sorte.» E una volta dentro di essersi rifiutato di diventare kapò e di essersi gettato contro i reticolati elettrici. «Conservare il senso della morale in quel inferno! Non ha saputo adattarsi a ciò che è disumano. E io, sua figlia, glielo rimprovero. E’ terribile!» Paul dal canto suo dice: «…io penso che mio padre era un povero diavolo! Si è fatto intrappolare stupidamente: in fondo non gli perdono questa sua stupidità! Avrebbe dovuto riflettere di più! Credo che sia questo che mi disturba profondamente», ma poi ammette che si è sacrificato per salvare la famiglia e che gli deve la vita per la seconda volta. Dalla perdita dei genitori, i figli non si sono mai rimessi. Alcuni hanno taciuto la verità dei fatti: «Io mi vergognavo di dire che mio padre era stato deportato. Vedevo davanti agli occhi quelle immagini di carri bestiame, poi quei pigiami a righe, e i crani rapati dei deportati, il loro aspetto grottesco. Mi vergognavo. Allora ho sempre detto agli altri bambini che mio padre era stato preso in quanto appartenente alla resistenza e fucilato dai tedeschi. Non capisco perché mi vergognassi della sua morte.» Molti hanno avuto manie suicide. Non hanno, comunque, rinunciato al loro essere ebrei, anche se «nella loro pelle di ebrei» non tutti si sentono a loro agio, come Joseph che pure nella guerra dei Sei Giorni si arruola come volontario per andare a difendere l’albero lì piantato a ricordo di suo padre: «Bisognava che andassi a difendere l’albero di mio padre; era come se gli togliessero la vita una seconda volta o come se profanassero la sua tomba.» Molti degli orfani dicono di aver aspettato a lungo che il loro padre tornasse. Per non averlo salutato, per non essersi pacificati con lui dopo un litigio, come grida Samuel, dopo aver pianto per mezz’ora: «Tu non puoi capire, nessuno lo sa. La sola volta che ho litigato con mio padre e che lui è andato via arrabbiato senza che avessimo fatto la pace è stata la sera del suo arresto. Capisci fino a che punto ce l’abbia con me stesso? …Se n’è andato via arrabbiato con me. Un litigio è l’addio che ho dato a mio padre.» Non aver compiuto l’ultimo gesto o detto l’ultima parola equivale all’impossibilità di rielaborare il lutto. La storia è rimasta sospesa su quel non detto, non fatto. E non compiutasi, è destinata a ripetersi, nella memoria, sempre ogni qual volta riaffiora, revocata o no. Una storia che è rimasta poi senza parole, perché il dolore ammutolisce. Solo a Claudine Vegh, i figli dei deportati sono riusciti, anche se con molta fatica, a parlare, perché lei era una di loro e poteva intenderli, soprattutto nel non detto. Quanto queste confessioni abbiano prodotto in termini di catarsi, di liberazione è tutto nel titolo. Il rimpianto di non avergli detto arrivederci può attenuarsi, ma non finire. Senza fotografie, senza un’ultima lettera, senza una tomba sui cui piangere, vivere «nel passato» è una condanna, ma anche l’unica possibilità di vivere, fosse anche con la colpa di essersi salvati da quell’inferno. Ad ogni modo, come sostiene Bruno Bettelheim nella Postfazione, «Per coloro che hanno partecipato alla sua creazione, questo libro è un tentativo di grandissima importanza. Esso dà un colpo d’arresto agli sforzi di rifiuto e di rimozione e avvia il compito, così a lungo rimandato, di portare il lutto dei genitori assassinati, affinchè il loro ricordo venga sepolto e i loro figli finalmente possano vivere una vita normale.»