Alcune testimonianze dai lager nazisti

      Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss.
I giorni della mia giovinezza – Ana Novac
Il silenzio dei vivi – Elisa Springer

 

Davanti alle camere a gas - Birkenau
Donne e
kapos
La “fame” di scrivere
L’orchestra
Kapos
L’arrivo
Il “fenomeno”, Juliette
Il quaderno
La spersonalizzazione
La baracca 12
L’appello
I “pasti”
L’umanità del lager

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Davanti alle camere a gas - Birkenau

Molte donne nascondevano i bambini lattanti nei mucchi di abiti. Ma gli uomini del Sonderkommando vigilavano, e a forza di parole riuscivano a persuaderle a riprendersi i bambini.
Esse credevano che la disinfestazione potesse essere nociva ai piccoli, e per questo li nascondevano. I bambini piccoli per lo più piangevano durante la svestizione, impressionati da tante novità, ma quando le madri, oppure quelli del Sonderkommando, gli parlavano dolcemente, si calmavano e si avviavano tranquilli nelle camere a gas, stuzzicandosi l'un l'altro o tenendo in mano dei giocattoli. Ho notato spesso che donne le quali intuivano o addirittura sapevano ciò che le attendeva, pur con l'angoscia della morte negli occhi, trovavano la forza di scherzare coi figli, di parlargli amorevolmente. Una volta una donna passando mi venne vicina e mi sussurrò, indicandomi i suoi quattro figli, che aiutavano fraternamente i più piccoli a superare gli ostacoli del terreno: - Come potete avere il coraggio di ammazzare questi bambini? Ma non avete un cuore nel petto? - Un altro, un vecchio, nel passarmi davanti mormorò: - La Germania sconterà duramente questo assassinio in massa degli ebrei -. E i suoi occhi ardevano di odio. Pure, entrò coraggiosamente nella camera a gas, senza curarsi degli altri. Sopra tutti gli altri mi colpi una giovane, che correva freneticamente avanti e indietro, aiutando i bambini e gli anziani a spogliarsi. Durante la selezione aveva accanto a sé due bambini piccoli; mi avevano colpito la sua eccitazione e in generale il suo aspetto: non sembrava affatto un'ebrea. Ora non aveva più i bambini accanto a sé. Fino all'ultimo si diede da fare per aiutare alcune donne che avevano parecchi bambini, parlando loro gentilmente, calmando i bambini. Fu tra gli ultimi a entrare nel bunker.

Sulla porta si fermò e disse
: - Ho saputo fin dal principio che ad Auschwitz saremmo stati gasati. Quando avete fatto la selezione, ho evitato di essere messa tra gli abili al lavoro, perché volevo seguire i bambini. Volevo fare questa esperienza in piena coscienza. Spero che presto tutto sarà finito. Addio. –
Talvolta avveniva anche che alcune donne, mentre si spogliavano, rompessero d'improvviso in grida laceranti, strappandosi i capelli e comportandosi come isteriche. Subito venivano allontanate dalla massa e portate dietro la casa per essere uccise con un'arma di piccolo calibro, mediante il colpo alla nuca. Avveniva anche che, nel momento in cui quelli del Sonderkommando lasciavano il locale, le donne, intuendo perfettamente ciò che stava per accadere, ci urlassero dietro tutte le maledizioni possibili. Mi ricordo anche di una donna che, mentre stavano per chiudere le porte, cercò di spingere fuori i figli, e gridava piangendo: - Lasciate in vita almeno i miei bambini!-
Molte furono le scene commoventi, e colpivano tutti i presenti. Nella primavera del 1942
centinaia di uomini e donne nel fiore degli anni andarono così alla morte tra i frutteti in fiore della fattoria, nella camera a gas, senza per lo più intuire nulla. Questa immagine di vita e di morte rivive ancor oggi nitidamente davanti ai miei occhi.
Già l'operazione di selezione nel cortile era piena di incidenti. La divisione delle famiglie, la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini, diffondeva eccitazione e inquietudine in tutto il trasporto, e questo stato d'animo era accentuato dalla selezione degli abili al lavoro. Le famiglie volevano restare unite a ogni costo, e così i selezionati correvano di nuovo a raggiungere gli altri membri della famiglia, o la madre e i figli correvano in cerca dei loro uomini o dei figli maggiori considerati abili. Nasceva così una confusione tale che spesso bisognava ricominciare tutto daccapo. Inoltre, lo spazio angusto impediva che la selezione avvenisse con maggiore ordine, e tutti i tentativi di riportare la tranquillità naufragavano contro l'eccitazione della massa. Così, spesso bisognava impiegare la forza.
Come ho già detto altre volte, gli ebrei hanno un sentimento della famiglia profondamente radicato, e sono legatissimi gli uni agli altri. Ma, per quanto ho potuto osservare, mancano invece del sentimento di solidarietà reciproca. Si sarebbe potuto supporre che in una simile situazione avrebbero dovuto proteggersi tra loro; al contrario, ho saputo di frequente che ebrei - particolarmente quelli dell'Occidente - fornirono i nominativi di altri membri della loro razza, ancora nascosti. Una volta, una donna che già si trovava nella camera a gas trovò ancora la forza di gridare al sottufficiale l'indirizzo di una famiglia ebrea. Un altro, un uomo che dagli abiti e dall'aspetto appariva di ottime condizioni, mentre si spogliava mi consegnò un biglietto contenente i nominativi di numerose famiglie olandesi che nascondevano ebrei.

 

 

 

 

 

 

Donne e kapos

Quanto ho detto sin qui vale anche per le prigioniere di tutte le categorie. Ma per le donne ogni cosa era assai più dura, più oppressiva e più tremenda, perché le condizioni generali di vita erano assai peggiori nel campo femminile. Erano ancora più fittamente stipate nelle baracche, e le istallazioni igieniche e sanitarie erano molto più difettose. Inoltre, fin dall'inizio, non fu mai possibile stabilire nel campo femminile un ordinamento regolare, dato l'afflusso massiccio che si verificò, con le conseguenze facilmente immaginabili. L'affollamento era assai maggiore che nel campo maschile; e quando le donne avevano raggiunto il limite estremo, si lasciavano letteralmente morire. Allora vagavano per il recinto come fantasmi inerti, e dovevano essere spinte avanti dalle altre, finché si abbandonavano quietamente alla morte. Quei cadaveri ambulanti erano una visione orribile.
Le «verdi» (cioè le criminali) erano una razza a parte tra le prigioniere. Credo veramente che in quel periodo Ravensbrück avesse raccolto la schiuma, per inviarla ad Auschwitz. Quelle donne superavano di gran lunga i colleghi maschi per resistenza, bassezza, trivialità e depravazione. Per lo più erano prostitute, che avevano subito già molte condanne; alcune erano proprio repellenti. Era naturale, ma inevitabile, che simili esseri sfogassero le loro basse voglie sulle sottoposte. Nella sua visita ad Auschwitz nel 1942, Himmler decise che costoro erano particolarmente indicate a diventare kapos delle donne ebree. Tra le criminali la mortalità fu bassa, tranne nel caso di epidemie: certamente per loro non esistevano sofferenze spirituali. Il bagno di sangue di Budy
[villaggio a circa otto chilometri dal campo base di Auschwitz, dove era di stanza una compagnia di punizione dei prigionieri, adibita a lavori di canalizzazione della Vistola. Questa compagnia di punizione era completamente tagliata fuori dagli altri campi, e i kapos di ambo i sessi, reclutati fra i criminali, vi avevano instaurato un sanguinoso regno del terrore contro i prigionieri] mi sta ancora davanti agli occhi. Non credo che degli uomini avrebbero mai potuto trasformarsi a tal punto in belve feroci. Il modo in cui le «verdi» infierirono contro le ebree francesi, le dilaniarono, le massacrarono con le scuri, le strangolarono, è semplicemente spaventoso.
Fortunatamente, non tutte le «verdi» e le «nere» erano simili mostri. Vi erano tra esse anche creature possibili, capaci di nutrire sentimenti umani verso le compagne di prigionia. Naturalmente, ciò le esponeva a crudeli persecuzioni da parte delle peggiori tra loro, né le sorveglianti mostravano la minima comprensione per simili casi.
Un contrasto confortante era offerto invece dalle Testimoni di Geova, soprannominate “api della Bibbia”, o anche “vermi della Bibbia”. Sfortunatamente, erano troppo poche. Nonostante il loro atteggiamento più o meno fanatico, erano molto ricercate; erano impiegate come domestiche nelle famiglie di SS con molti bambini, nei club delle SS e perfino alla mensa degli ufficiali, ma soprattutto nei lavori agricoli.
Ad esempio, lavoravano negli allevamenti di pollame di Harmense e in molte altre fattorie. Non c'era bisogno di sorveglianti né di sentinelle; queste donne lavoravano con zelo e di buona voglia, ritenendo così di seguire il comandamento di Geova. Per lo più erano delle tedesche anziane, ma vi si aggiunsero poi anche delle giovani olandesi. Per più di tre anni ebbi come domestiche due anziane; mia moglie diceva spesso che non avrebbe potuto essere più accurata e coscienziosa di loro. Erano particolarmente, e in modo commovente, legate ai bambini, sia ai maggiori che ai più piccoli, ed essi le amavano come se facessero parte della famiglia. Da principio nutrivamo il timore che volessero conquistare i bambini alla loro fede, ma esso si dimostrò del tutto infondato. Infatti non tennero mai discorsi religiosi ai bambini, cosa tanto più straordinaria se si pensa al loro intenso fanatismo.
C'erano anche dei tipi singolari, tra loro. Ad esempio una, impiegata presso un ufficiale delle SS; faceva tutti i lavori possibili e immaginabili, ma si rifiutava ostinatamente e decisamente di pulire uniformi, berretti, stivali, in somma tutto ciò che sapeva di militare; non li toccava neppure. Nel complesso, però, erano abbastanza contente della loro sorte. Sopportare i dolori della prigionia per amore di Geova significava per loro la speranza di conquistare un posto nel suo regno, che presto sarebbe venuto. Fatto abbastanza strano, erano tutte persuase che era giusto che gli ebrei soffrissero e morissero, dacché i loro avi avevano tradito Geova.
Ho sempre considerato che i Testimoni di Geova fossero delle povere creature esaltate e un po' pazze, ma, a loro modo, felici.

Le altre prigioniere, di nazionalità polacca, cecoslovacca, ucraina e russa, venivano pure adibite a lavori agricoli, per quanto era possibile. Era comunque un modo per sfuggire all'affollamento del campo, con le sue tristi conseguenze: gli alloggiamenti nelle fattorie e a Raisko erano infinita mente migliori. Ho sempre notato che tutti i prigionieri addetti all'agricoltura e alloggiati separatamente dagli altri avevano un aspetto assai diverso. Essi non erano sottoposti alle stesse oppressioni psicologiche dei loro compagni nei campi affollati; né avrebbero mostrato, altrimenti, tanta operosità e tanto zelo nel lavoro. Il campo femminile, sovraffollato fin dalla sua creazione, significò per le donne in massa un vero annientamento psichico, al quale presto o tardi seguiva il crollo fisico.
Come già dissi, le condizioni nel campo femminile erano di gran lunga peggiori, sotto tutti gli aspetti, e così fu fin dall'inizio, quando ancora faceva parte del campo base. Fin da quando cominciarono a giungere i contingenti di ebrei dalla Slovacchia, in pochi giorni l'affollamento divenne tale che le baracche si riempirono fino al soffitto, mentre i servizi igienici e sanitari avrebbero potuto bastare al massimo per un terzo del numero dei detenuti. Per poter stabilire un certo ordine in questo brulichio di gente avrei avuto bisogno di ben altre forze che non le poche sorveglianti inviate da Ravensbrück. Devo nuovamente premettere che anche questa volta non mi fu certo assegnato il meglio del personale. A Ravensbrück le sorveglianti erano state molto viziate: era stato fatto ogni sforzo per trattenerle a lavorare nel campo di concentramento femminile, e per far affluire nuove sorveglianti col miraggio di comodità assai ambite. Il trattamento era ottimo, e la paga era maggiore di quel che avrebbero potuto ottenere lavorando fuori. Né gli incarichi di lavoro erano onerosi; insomma, era desiderio di Himmler, e particolarmente di Pohl, che queste sorveglianti fossero trattate col maggior riguardo possibile. A quel tempo, per di più, le condizioni del campo a Ravensbrück erano normali, né si poteva parlare in nessun modo di sovraffollamento
Trasferite ad Auschwitz, queste sorveglianti - nessuna delle quali vi andò volontariamente - dovettero assoggettarsi al lavoro di costruzione del campo, nelle peggiori condizioni possibili. Fin dal principio la maggioranza di loro avrebbe voluto scappare per tornare alla tranquilla e comoda vita di Ravensbrück. La sorvegliante in capo, signora Langefeldt, non era affatto all'altezza della situazione, ma testardamente rifiutò di accettare qualunque suggerimento dallo Schutzhaftlagerfuhrer. Di mia iniziativa, allora, affidai senz'altro l'intero campo femminile alla sorveglianza di quest'ultimo, avendo capito che altrimenti la confusione e la disorganizzazione non sarebbero mai cessate. Ad esempio, non c'era giorno che non sorgessero discrepanze sul numero delle detenute. Le sorveglianti, in quella confusione, correvano avanti e indietro come galline impazzite, senza sapere che fare. Anche le tre o quattro migliori furono contagiate dall'esempio delle altre. La sorvegliante in capo, che si sentiva un comandante di campo autonomo, non sopportava di essere subordinata ad un suo pari grado, e alla fine dovetti sopprimere tale disposizione. In occasione della visita di Himmler, nel luglio 1942, in presenza della sorvegliante in capo, feci un rapporto su tutti gli inconvenienti rilevati e gli dichiarai francamente che la signora Langefeldt non sarebbe mai stata in grado di dirigere degnamente il campo femminile e tanto meno di cooperare alla sua costruzione, e lo pregai di conseguenza di preporre ad essa il primo Schutzhaftlagerfuhrer. Ma, nonostante le più impressionanti testimonianze fornitegli sull'inettitudine della sorvegliante in capo e delle altre, egli rifiutò nettamente, poiché desiderava che il campo femminile fosse diretto da una donna; mi suggerì però di darle come aiutante un ufficiale delle SS.
Ma quale degli ufficiali avrebbe accettato di lavorare agli ordini di una donna? Uno dopo l'altro, tutti quelli che incaricai d'ufficio di tale lavoro mi pregarono di esonerarli al più presto. Quando arrivavano i contingenti più grossi cercavo di essere presente io stesso, per quanto me lo consentiva il mio lavoro, al fine di dirigere meglio le operazioni di smistamento. Così fin dal principio il campo femminile finì nelle mani delle prigioniere stesse. E quanto più il campo cresceva, e diventava incontrollabile per le sorveglianti, e tanto più si manifestava l'autogoverno delle prigioniere. Ma poiché in tale governo le «verdi» spadroneggiavano, essendo inoltre le più scaltre e ciniche, di fatto furono esse a dominare il campo femminile, sebbene le anziane del campo e le altre funzionarie fossero «rosse». Le «istruttrici», come erano chiamate le donne con funzioni di kapos, erano per lo più « verdi » o « nere ». Solo così si spiega perché nel campo femminile regnassero le condizioni più miserabili.
E tuttavia queste prime sorveglianti furono di gran lunga migliori di tutte quelle che vennero in seguito.
Poiché, nonostante gli assidui tentativi di reclutamento da parte delle organizzazioni femminili nazionalsocialiste, erano pochissime le candidate che si presentavano per il servizio nei campi di concentramento, si rese necessario provvedere d'ufficio alle necessità sempre crescenti. Tutte le fabbriche belliche, nelle quali erano state messe a lavorare le prigioniere, dovettero rilasciare una certa percentuale di operaie perché fossero adibite all'ufficio di sorveglianti nei campi. E' comprensibile che queste fabbriche, data la generale carenza di forze femminili dovuta alla guerra, rilasciassero soltanto gli elementi peggiori. Queste nuove sorveglianti venivano « istruite» per qualche settimana a Ravensbrück e poi inviate presso le prigioniere. E, ancora una volta, poiché la scelta e l'assegnazione dipendevano dal comando di Ravensbrück, Auschwitz era sempre in coda. Era più che naturale che là trattenessero per sé le migliori per adibirle ai nuovi campi femminili da costruire.
Così stavano le cose per il reparto di sorveglianza del campo femminile di Auschwitz. Com'era da aspettarsi, il livello morale di queste donne era, quasi senza eccezioni, molto basso. Parecchie sorveglianti furono messe sotto processo, presso il Tribunale delle SS, per i furti compiuti durante la Aktion Reinhardt. Naturalmente, ciò avvenne soltanto per le poche che furono scoperte. Nonostante le gravissime pene comminate, si continuò a rubare a man salva, utilizzando anche i prigionieri come strumenti. Un solo caso basterà a illustrare quanto ho detto.
Una di queste sorveglianti era scesa così in basso da stringere relazioni sessuali con prigionieri, per lo più kapos «verdi». In ricompensa di questo commercio sessuale, al quale, del resto, era anche troppo incline, si faceva dare gioielli preziosi, oro ecc. Per coprire questa sua vergognosa attività, intrecciò una relazione con un sottufficiale della truppa, presso il quale custodiva indisturbata i tesori così guadagnati. Il poveraccio ignorava totalmente l'attività della sua bella, e fu addirittura sbalordito quando nella sua casa vennero scoperti quei tesori. La sorvegliante venne condannata da Himmler alla prigione nel campo di concentramento, e le furono somministrate venticinque frustate.

 

 

 

 

 

La “fame” di scrivere

Le mie annotazioni vorrebbero anche sfatare definitivamente una leggenda tanto diffusa quanto falsa: e cioè che la sofferenza nobiliti. Eravamo tutte martiri, ma non di quelle che aspirano alla santità. Martiri con una voglia di vivere talmente esorbitante, che eliminava la pietà anche al cospetto della morte (degli altri). Uno strano pianeta, un universo a conti fatti ignoto, salvo per coloro che ne facevano parte, governato da un'unica legge: sopravvivere.
Forse devo la mia sopravvivenza al mio diario, che mi lasciava appena il tempo di pensare alla fame, a mia madre...

Diciamo piuttosto che la mia fame di scrivere era più forte di ogni altra fame, di ogni altra paura, più forte dei pidocchi, della diarrea. Più forte del Terzo Reich.

Sarà il caso che, tra tanti piedi e tanti passi, ha consentito ai miei di inciamparvi? Era irriconoscibile, polverosa, consumata. Ma io l'ho riconosciuta. Forse eravamo in marcia l'una verso l'altra da un bel pezzo. Un incontro predestinato. Forse non è neppure una matita - è una bacchetta magica. Questa cosa rosicchiata, strappata al fango, mi restituisce di nascosto quello che un universo mortifero tenta di strapparmi: la gioia di dire "merda!"

Conversazione edificante con Hella. Oggi, durante la pulizia, mi ha sorpresa a letto. Come sempre, dopo l'appello, mi ci ero infilata di nuovo; l'unica breccia in questo compatto inferno è una mezz'ora di tranquillità. Mi riempio di frescura, di silenzio. Fino ad oggi sono riuscita a procurarmeli con stratagemmi e astuzie, nonstante i rischi.
Si è avvicinata quatta quatta. Quando mi sono accorta di lei, doveva essere lì già da qualche istante:
— Che fai a letto?
— Scrivo.
— Cosa?
— Cose.
Tace. Non ha il suo manganello. Potrebbe usare le mani, ma forse è pigra, o solo sconcertata da una situazione inattesa.
— E la carta dove l'hai presa ?
— L'ho trovata.
Ho aggiunto che l'ho strappata dal recinto dei gabinetti e che dietro ha la scritta: "Sauberkeit ist Gesundheit." [Pulizia è salute] Ma non ha insistito. Oggi non è in forma. Mi chiede, quasi fiaccamente:
— Ci tieni alla pelle?
— Un po'.
— Allora butta via immediatamente quella roba. Weg schmeissenl
Non mi scaccia neppure dalla mia cuccetta.  - Weg schmeissen!
Strana situazione. Cos'è più ' forte della mia paura? La mia seconda pelle: il mio diario.

 

 

 

 

 

L’orchestra

Il girotondo dei corpi nudi sotto il cielo rosso, questa musica barbara, e tutte queste ombre mobili... come se emergessimo da un'epoca passata, da una leggenda selvaggia. Al centro, l'elegante sagoma nera del capotribù. Soltanto la sua uniforme sembra fuori posto, falsa il quadro. Fischia, e, con un ripetuto movimento del pollice, ad ogni istante fa uscire un corpo dal girotondo. E il suo dito si muove con la musica, mentre il girotondo sembra ridursi a puro ritmo. Giriamo sempre più presto... sempre meno numerose... sempre meno numerose, avvertendo in maniera sempre più intensa quel ritmo febbrile. A che scopo? (Ancora una domanda! Mio Dio, non perderò mai l'abitudine?)
I tedeschi ci insegnano a ballare.
Strano! Durante quel rituale non mi facevo domande. Non mi sorprendevo di niente.
Mi muovevo, giravo in tondo, senza peso, senza sforzo, come in un sogno.
Ma non è di questo che volevo parlare. Judy.
Quando tutto è finito, mi sono fermata, esitante, e poi ho visto le file dei corpi nudi che si allontanavano; l'ansia è tornata a divorarmi, come se avessi commesso una grande imprudenza, un qualcosa di irrimediabile. Andavo e venivo nell'oscurità, gridando il suo nome. Non era tra quelle che erano rimaste. È stato allora che Sophie mi ha trovato. Mi ha preso per il braccio, con uno slancio insolito per lei (adesso, pensandoci, mi viene da ridere: che c'è di più grottesco di due ragazze calve e nude aggrappate l'una all'altra?), e mi ha ricondotta al mio posto.
Fortuna che le hanno portate via — dice. — Ci sarà più posto nella baracca. —
Sono stata zitta; desideravo con tutto il cuore che avessero portato via lei, e che Judy fosse rimasta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kapos

Le slovacche, per lo meno quelle sopravvissute (le più brutali), sono qui da sei anni. Non ci perdonano, a noi ungheresi, di essere rimasti a casa nostra a mangiare pane e burro, mentre loro...
Oggi cercavano ancora le minori di sedici anni. Faccia di Bambola ne ha pescata una tra le file. Sembrava giovanissima, infatti: su per giù dodici anni. Spalancava i grandi occhi su Faccia di Bambola, non capiva che cosa volesse. Una donna più anziana si aggrappava a lei, probabilmente sua madre, e niente, né minacce né schiaffi, non riuscivano a fargliela mollare. La stringeva convulsamente e balbettava, nel suo incerto tedesco:
-Sie bleie da, meine Tochter!'
Faccia di Bambola alla fine ne ha avuto abbastanza, l'ha colpita alle costole, e quella è finita lunga distesa. La tedesca ha trascinato via la bambina che ha fatto qualche passo con muta docilità, quasi indifferente.
Poi, si è voltata e, prima che potessero impedirglielo, è corsa verso sua madre e si è gettata su di lei. Sembrava che niente sarebbe riuscito a staccarle. Il suo corpo gracile era scosso da singulti e secchi singhiozzi:
— Mamma, cara mamma! — ripeteva, tra gemiti e grida rauche.
— Sie ist hysterkh, die Kleine! — ha detto Faccia di Bambola, e tuttavia non è intervenuta. Al contrario, è rimasta a osservarle sempre più da vicino, arricciando il labbro superiore un po' troppo corto, con la curiosità di un bambino davanti al comportamento imprevisto di un insetto.
La stretta convulsa si prolunga. Per lunghi istanti aspettiamo, immobili come soldatini di piombo.
Alla fine, la tedesca si avvicina alle due donne, senza fretta, si ferma a qualche passo di distanza. La madre la vede e si trascina ai suoi piedi. Vuol dire qualcosa, ma non ce la fa. Il suo viso largo, inondato di sudore, lentigginoso, è quello di un'annegata.
Vedo solo il profilo di Faccia di Bambola. Una faccina camusa, giovane, piacevole. Un bambino che dorme con gli occhi aperti, un gatto sazio. per questo che non capisco cosa succede, da dove viene l'improvvisa detonazione. La sagoma inginocchiata fa uno strano capitombolo nella polvere, e io chiedo alla mia vicina:
— È svenuta?
— Cretina! — risponde lei.
Guardo Faccia di Bambola che si infila in tasca un piccolo oggetto lucente, non più grosso di un astuccio da sigarette. Quindi ordina: — Blockspärre. — Passa davanti al silenzioso muro umano, fa un saltello per evitare il cadavere e la bambina che gli si incolla sopra come una gobba del terreno.
Veniamo spinte nelle baracche. Mi volto. Sono sole sulla grande piazza, sotto il solo ardente, come una collinetta nel deserto.

 

 

 

 

 

L’arrivo

Il nostro vagone è in ritardo. È arrivato un "trasporto" belga od olandese.
Incontro indescrivibile: capelli "civili", panni "civili", orrore "civile" alla vista del nostro gregge nudo e calvo. — Was ist das, ein Spital? [Che cos’è, un ospedale?]
Ho ancora nelle orecchie la voce delle nostre che ponevano la stessa domanda, spalancando allo stesso modo gli occhi.
Eravamo identiche alla folla nuda che ci era corsa incontro tre settimane prima, quando scendemmo alla stazione di Auschwitz: una folla silenziosa che aveva fissato, con la stessa espressione incredula e avida, i nostri capelli, i nostri abiti, le nostre valigie.
Mille donne nude tutte insieme è una cosa che non ha niente d'umano, ma qualunque schifiltosità è fuori luogo e inutile. Le capellute, però, non ne sanno ancora niente.
— Sono malate di mente? — chiedono, con la loro commovente logica di "civili". I tedeschi se la godono, i polacchi sogghignano, noi sorridiamo.
Dopo dieci minuti quelle ricompaiono, in fila indiana, nude come noi e completamente inebetite dal vapore e dal panico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il “fenomeno”, Juliette

Sua madre si agita attorno a lei: una donna che la vecchiaia, la calvizie, la maternità e la loquacità fuori dal comune rendono difficile da descrivere. Protesta, si lamenta in continuazione, e racconta a chiunque voglia ascoltarla che a casa sua il pavimento brillava come uno specchio. E poi, la cultura tedesca l'ha delusa. Lei che andava ogni anno a Baden e che aveva letto il Faust,  non riesce a capire come un popolo così civile abbia potuto costruire latrine così spaventose. La deportazione, confessa, la innervosisce, e oltre tutto blocca lo sviluppo di sua figlia, una ragazza eccezionale: bisognava vederla interpretare la fata alla recita scolastica di Csongor e Tünde, con quei bei riccioli d'oro! Lei stessa, da giovane, aveva avuto grande successo in una recita di beneficenza, ed è da lei, in fondo, che la bambina ha ereditato le tendenze artistiche.
Ma la "bambina" nega a spada tratta di aver ereditato qualcosa dalla madre. Lei è figlia di suo padre, un mascalzone che si è mangiato tutto al gioco, ma almeno mentiva con più stile.
Ma la "bambina" nega a spada tratta di aver ereditato qualcosa dalla madre. Lei è figlia di suo padre, un mascalzone che si è mangiato tutto al gioco, ma almeno mentiva con più stile.
— Ma va', mamma — dice alla matrona pietrificata dall'ilarità generale; quindi si rivolge a noi — E' vero che una volta, quarant'anni fa, è stata a Baden; ma del Faust conosce solo il titolo, perché, a parte le ricette di cucina, legge solo giornali illustrati.
Riccioli d'oro, ah, ah, ah! Questa si che è buona. Una zazzera immonda, come se ne vedono poche. Per me è stato un sollievo che mi abbiano rapato. L'unica cosa sensata che i tedeschi hanno fatto per me.
Le mani sui fianchi, facendo oscillare la sua sagoma stravagante davanti al pubblico che le si stringe intorno, Juliette il "fenomeno" si sbellica dalle risate.
In Csongor e Tünde aveva avuto successo, si, ma nella parte della strega: con una faccia cavallina come la sua, non poteva certamente recitare il ruolo della fata buona. E, con qualche colpo d'anca e una zuccherosa voce da fatina, fa scoppiare a ridere l'auditorio.
Abbiamo appena avuto il tempo di riprenderci, che al posto della fatina compare una spaventosa megera gobba e zoppa: Mirigy, la strega, con una luce maligna negli occhi strabici e la bocca contorta che lancia orrende ingiurie (le più emotive si tirano indietro).

 

 

 

 

 

 

 

 

Il quaderno

Quattro giorni mi separano da Auschwitz, ed è la prima volta che scrivo in un quaderno. Ha la copertina marrone e trecento pagine. Le ho carezzate e contemplate una a una. Ce l'ho da un'ora, e continuo a sfogliarlo.
Tutto sembrava perduto - qui non c'è carta da mimetizzazione - quando questo pomeriggio, all'improvviso, il destino è comparso davanti alla nostra baracca, nella veste di un Lagerkapo polacco.
Ho notato che aveva sotto braccio una cosa marrone e mi sono avvicinata senza esitare:
— Herr Lagerkapo — gli ho detto, con la sicurezza di cui è capace una persona che, a partire dalla sesta, per ragioni di principio ha trascurato le lezioni di tedesco. — La prego, mi dia quel quaderno! È da un pezzo che l'aspetto.
È quasi calvo. Naso a becco, sguardo stanco ma attento e scaltro. Senza dubbio ben educato, perché non mi molla uno schiaffo. Continua ad andare. Lo raggiungo.
— Aber Herr Lagerkapo!
Si ferma, sulla fronte gli si disegna una ruga per niente incoraggiante. Il suo sguardo non è più sorridente.
— Come sarebbe a dire, che aspetti questo quaderno? Se me l'hanno appena portato... —. E’ irritato, ma questo non attenua la mia sorpresa,
la prima volta che sento parlare un tedesco puro, di una distinzione quasi provocatoria, in questo campo dove si bofonchia di continuo, e in tanti dialetti che ci si chiede: come fanno loro, i cittadini, a capirsi in un impero in cui ci sono più dialetti che abitanti? È anche la prima volta che mi trovo a quattrocchi, di mia volontà, con uno che porta il bracciale:
— Devo scrivere — gli dico. — Ho bisogno di un quaderno. Sono scrittrice.
Lo guarda con aria decisa.
— Uhm — fa lui, pensoso, mentre un ricamo di piccole rughe gli si disegna attorno agli occhi. E quando i suoi occhi azzurri si fermano su di me, all'improvviso mi vedo irresistibilmente comica, con questa palandrana che mi svolazza attorno, gambe come stecchini, e una testa da zingara calva. — Si, sono scrittrice. — Mi viene da ridere, anche se lui non sorride.
Il suo sguardo è quasi incoraggiante, e tradisce la pena per la lamentevole creatura piena di pretese che sono io.
Cerco disperatamente una frase sensata che spieghi il mio comportamento insolito; ma lui, con una strizzatina d'occhio amichevole, mi assolve: — Va bene, va bene, capisco...
Ho già in mano il quaderno e ci siamo già detti arrivederci, quando mi viene un'idea e lo fermo. Accidenti, ho dimenticato come si dice matita in tedesco, e devo spiegarmi a gesti. Lui si fruga in tasca e ne tira fuori una quasi nuova.
To' — dice. — La prossima volta avrai una stilografica.

 

 

 

 

 

La spersonalizzazione

Terminata la selezione, divisero uomini e donne e ci fecero entrare in due baracche diverse. Qui avvenne la nostra orrenda metamorfosi. Il nostro processo di spersonalizzazione iniziava da quella baracca.
Costrette a spogliarci completamente nude, davanti ad alcune SS e alle guardiane armate di bastoni, donne dal viso cattivo e prive di qualsiasi sentimento, fummo fatte poi sdraiare su dei lettini, come quelli in dotazione ai medici, e fummo completamente rasate in tutte le parti del corpo.
A questa mansione, erano addetti alcuni detenuti in camice bianco, che fungevano da barbieri. Da quegli uomini non udimmo neanche una parola, ma dal loro silenzio intuimmo che «dovevano» farlo. In un ultimo tentativo di difendermi da tanta violenza fisica e morale, serrai le gambe, cercando di coprir mi il seno con le braccia. Un nazista mi colpì con la canna del fucile e brutalmente gridò: «Spalanca le gambe e fatti rasare!»
In quel momento persi tutta la mia dignità e il mio pudore.
Le guardiane di fronte a noi ci schernivano ridendo e brandendo il bastone, per accrescere la nostra paura... ma, ormai, non era più necessario.
Uguali nell'aspetto le une alle altre, già fiaccate nello spirito, eravamo inermi davanti ai nostri aguzzini che ridevano del nostro pudore, ci schernivano per l'aspetto, ci mortificavano nella nostra femminilità.
Eravamo ebrei, esseri immondi da eliminare: questa la ferrea logica del Reich.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La baracca 12

Trascorsi la mia prigionia nel campo B II C di Auschwitz-Birkenau e precisamente, nella baracca 12.
Una baracca in legno, molto grande, lunga circa ottanta metri, senza finestre e con due grandi portoni: uno anteriore e l'altro posteriore. Una stufa in mattoni rossi, alta circa un metro, percorreva la baracca per tutta la lunghezza: non l'ho mai vista funzionare.
Sulle pareti erano appoggiati dei tavolacci incolonnati su tre piani.
Tra un piano e l'altro, l'altezza era di un metro appena, sicché non si poteva stare seduti con la schiena diritta, ma ci si doveva curvare assumendo la posizione degli animali rintanati nelle loro cucce.
Fummo costretti a dormire in dodici su quei tavolacci larghi due metri e lunghi uno, costretti a rimanere sdraiati su un fianco, immobili in quella posizione, poiché la mancanza di spazio ci precludeva ogni movimento. L'insufficiente lunghezza del tavolaccio ci costringeva, oltretutto, a rimanere con le gambe nel vuoto.
In questa situazione, cercai di sistemarmi alla meglio. Occupai un posto all'ultimo piano, riuscendo a collocarmi sul margine esterno del tavolaccio, in maniera tale da avere più aria e da evitare il fiato delle altre compagne. Ancora oggi, dopo cinquant'anni, mi è rimasta l'abitudine di dormire poggiata sul fianco destro, al bordo del letto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’appello

Io avevo la fortuna di conoscere, oltre alla mia lingua madre, anche l'inglese, l'italiano, lo spagnolo e un po' di russo: così cercai, durante gli appelli, di rendermi utile traducendo a mezza voce i diversi ordini alle mie compagne.
In questo modo riuscii a evitare loro atroci punizioni, attirando però su di me l'attenzione delle SS che, da quel momento, cominciarono a controllare ogni mio movimento.
Una mattina, solo per aver aiutato durante l'appello una compagna che era sul punto di svenire, fui chiamata fuori dal gruppo da un ufficiale che, davanti a tutte, con un ferro rovente, mi bruciò l'interno della coscia destra.
Marchiata come le bestie, da quel momento mi si impediva di nutrire il sentimento della pietà e della solidarietà verso il mio prossimo: per me, la strada dell'indifferenza, cominciava a prendere la forma di un percorso obbligato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I “pasti

Al mattino ci veniva somministrato, in un bicchiere di smalto, del surrogato di caffè che io utilizzavo per lavarmi gli occhi e sciacquarmi la bocca, dal momento che in quel periodo ad Auschwitz-Birkenau, scarseggiava l'acqua.
Al pranzo veniva distribuita una zuppa grigiastra a base di rape e ortiche che consumavamo nelle nostre gamelle. Nonostante bruciasse tremendamente la gola, riuscivamo ugualmente, per la gran fame, a ingurgitare quella brodaglia.
Un pezzo di pane, del peso di circa duecentocinquanta grammi, fatto di farina di castagne selvatiche e segatura, doveva bastarci fino al giorno dopo. Per cena ci veniva distribuito un quadratino di margarina e un pezzetto di carne. Dopo la Liberazione qualcuno ipotizzò, forse a torto, che quella margarina e quella carne erano state ricavate dai corpi dei compagni sterminati nel campo.
Questo tipo di alimentazione ci procurava tutta una serie di sintomi che aggravavano altre malattie quali la scabbia, il tifo petecchiale detto anche tifo epidemico, la malaria e la febbre gialla, per ricordarne solo alcune tra le più diffuse e di cui, oltre tutto, mi ammalai.
Le estreme condizioni di vita del campo di Birkenau e l'alimentazione carente, provocarono in molte di noi una forte astenia, una progressiva perdita di peso, accompagnate da dissenteria con, a volte, perdite di sangue. A lungo andare le feci diventavano liquide, gli zigomi, le orbite e le estremità degli arti si gonfiavano per gli edemi. La sete, che non si riusciva a placare, rappresentava l'estrema conseguenza di queste condizioni: ho visto alcune mie compagne, disperate, bere la loro urina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’umanità del lager

Ricordo una notte: erano due belghe, madre e figlia.
La figlia accusava sua madre di approfittare del buio e del sonno, per rubarle il pezzo di pane che si era messo da parte sotto il cuscino per il giorno dopo. La ragazza rinfacciava alla madre di essere avida e senza scrupoli. Effettivamente, chi stava peggio fisicamente era la figlia, tanto che, dopo qualche settimana, fu prelevata, durante una delle selezioni, e avviata alla camera a gas.
Nella mia baracca ricordo una ragazza, piuttosto grassa, bella di viso, con capelli neri, di nome Fanny, che riusciva sempre a trovare una parola di consolazione per chiunque ne avesse bisogno. Aveva un carattere dolce ed era ottimista nonostante la disperazione, la fame e la miseria che regnavano su di noi.
Fanny si ammalò di TBC. Resistette in baracca solo tre giorni. Durante la notte cercammo di vegliarla a turno.
La povera Fanny, con voce straziata, immersa in un sudore che sapeva di morte, ci implorava di non abbandonarla, non voleva morire a Birkenau, voleva morire libera, voleva tornare tra i suoi cari. Durante la selezione fu portata al Revier: col fiato che le restava in gola, gridò e supplicò di essere lasciata nella baracca.
Tutte noi assistemmo impotenti, impaurite, a quella richiesta straziante di aiuto. Chiedeva solo di essere lasciata nella baracca. Nonostante il suo fisico robusto, Fanny fu trovata morta nel pagliericcio dell'infermeria, dopo aver agonizzato per tutta una notte.