VOCI DAI LAGER: ELIE WIESEL E PRIMO LEVI
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutto è possibile, anche i forni crematori

Wiesel, appena arrivato ad Auschwitz 2 - Birkenau,  deve superare la selezione, ed è in procinto di raggiungere una fossa in cui bruciano i cadaveri. Il susseguirsi dei momenti e dei passi è scandito dai pensieri del giovane Elie, che ci lascia entrare nella sua mente durante quei drammatici istanti, vissuti tra la vita e la morte Questa scena fa letteralmente tirare un sospiro di sollievo alla fine, quando padre e figlio vengono mandati nella baracca.

<<…un sudore freddo mi copriva la fronte, ma gli dissi che non credevo che si bruciassero degli uomini nella nostra epoca, che l’umanità non l’avrebbe più tollerato…

-         L’umanità? L’umanità non si interessa a noi. Oggi tutto è permesso, tutto è possibile, anche i forni crematori…

La voce gli si strozzava in gola.

-         Papà, - gli dissi – se è così non voglio più aspettare. Mi butterò sui reticolati elettrici: meglio questo che agonizzare per ore tra le fiamme.

  Lui non mi rispose. Piangeva. Il suo corpo era scosso da un tremito. Intorno a noi tutti piangevano. Qualcuno si mise a recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti. Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per sé stessi.

-         Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà… Che il Suo Nome sia ingrandito e santificato…-  mormorava mio padre.

   Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me.

Perché dovevo santificare il Suo Nome? L’eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo?

  Continuammo a marciare. Ci avvicinavamo a poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non aveva da fare che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette. Marciavamo lentamente, come dietro ad un carro funebre, seguendo il nostro funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima la fossa e le sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l’addio a mio padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si presentavano sulle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà… Che il Suo Nome sia elevato e santificato… Il mio cuore sava per scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all’Angelo della morte…

   No. A due passi dalla fossa ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca.

 

 

 

 

 

 

 

Mai dimenticherò quella notte

 

In questo passo Elie Wiesel descrive le impressioni, suscitate in lui durante  il primo giorno e la prima notte di permanenza nel campo, che non lo abbandonarlo più.
E’ evidente che una simile esperienza sia indelebilmente impressa in chi l’ha subita, tuttavia alcuni hanno cercato di nasconderla. E’ molto difficile per queste persone parlare di quel periodo della loro vita, ma è necessario affinchè non si dimentichi quello che è accaduto. Wiesel si rende conto della fatica necessaria alla memoria, perché quel doloroso ricordo è impresso così fortemente che non lo dimenticherebbe  neanche se dovesse vivere quanto Dio.  
Colpisce il fatto che i deportati, nonostante al loro arrivo al campo abbiano visto immagini terribili, e per loro il confine fra vita e morte fosse sottilissimo, abbiano avuto la forza di andare avanti. Infatti chi si abbandonava a de stesso rimaneva isolato, diventava un “musulmano”, cioè per lui era morte certa.
Dal brano emerge un’altra osservazione importante, cioè l’indifferenza del mondo esterno e della natura nei confronti del campo. Wiesel esprime questo parlando di un “cielo muto”, che fa anche pensare a come Dio abbia potuto far accadere tutto ciò. Dopo una simile esperienza Wiesel perde per sempre la sua fiducia in quel Dio, cui aveva creduto fermamente, visto che in patria studiava il Talmud e partecipava attivamente alle iniziative della comunità ebraica. Dio appare impotente nei confronti di certe azioni umane. I deportati, nel campo, non erano spinti a sopravvivere perchè credessero in un Dio che li potesse salvare, ma perchè erano ridotti a macchine senza anima nè pensieri. 

“Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.

Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. […]

 

 

 

 

 

 

 

 

Dio non esiste

 

Nell’autore si insinua il dubbio circa la possibilità di credere ancora in  Dio, poiché, se Dio esiste davvero ed è, come tutte le religioni predicano, "immensamente buono", non avrebbe potuto permettere Auschwitz, il più atroce tra tutti gli stermini che la storia abbia conosciuto. Il silenzio di Dio permette la tragedia degli uomini e offusca la fede.
Wiesel si sente solo, perché neanche Dio è intervenuto ad aiutarlo e ad aiutare il suo popolo.

  "- Sia il Nome dell'Eterno!- Ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz , Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGli :< Benedetto Tu sia Signore. Re dell'Universo, che ci hai eletto fra i popoli per veder torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare>?"

 “Io non digiunai. Prima per far piacere a mio padre, che mi aveva proibito di farlo, e poi perché non c’era più nessuna ragione perché digiunassi. Non accettavo più il silenzio di Dio. Inghiottendo la mia gamella di zuppa vedevo in quel gesto un atto di rivolta e di protesta contro di Lui.
E sgranocchiavo il mio pezzo di pane. In fondo al cuore sentivo che si era fatto un grande vuoto.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un pensiero indegno di un uomo

Il passo seguente è significativo poiché contiene uno degli esempi di annullamento della dignità che veniva subito dai deportati ad opera dei nazisti nei campi di concentramento: l’uomo ridotto a un numero può fare spazio solo all’istinto di sopravvivenza. Wiesel, solo per un attimo, prova un terribile e tragico senso di sollievo  perché pensa di aver perduto il padre, considerato quasi un ostacolo alla sua sopravvivenza. Il rimorso per questo fugace pensiero indotto dalla situazione di privazione e di paura lo perseguiterà per sempre.
“Faceva giorno quando mi svegliai. Allora mi ricordai di avere un padre: dopo l’allarme avevo seguito la folla senza occuparmi di lui. Sapevo che era allo stremo delle forze, sull’orlo dell’agonia, eppure l’avevo abbandonato. Partii alla sua ricerca.
Ma nello stesso istante nacque in me questo pensiero: ’Purché non lo trovi! Se potessi sbarazzarmi di quel peso morto, così da poter lottare con tutte le mie forze per la mia sopravvivenza, occupandomi solo di me stesso ’. E subito ebbi vergogna, vergogna per sempre di me stesso.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno sguardo maledetto

Da questo brano, che costituisce la conclusione del libro, si vede come tutti alla fine della tragica esperienza nel Lager fossero completamente trasformati nel corpo e nello spirito: la Fame e non ricerca della vendetta domina i prigionieri che non saranno più quelli di prima, ma dei sopravvissuti che vedono nello specchio non se stessi, ma un cadavere dallo sguardo indimenticabile

“Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta, né ai parenti: solo al pane.
E anche quando non avemmo più fame non ci fu nessuno che pensò alla vendetta. Il giorno dopo, qualche giovanotto corse a Weimar a raccogliere patate e vestiti, e qualche ragazza, ma di vendetta nessuna traccia.
Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un’intossicazione. Fui trasferito all’ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte.
Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto.
Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava.
Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se questo è un uomo (Primo Levi)

 

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

        Considerate se questo è un uomo
       Che lavora nel fango
       Che non conosce pace
       Che lotta per mezzo pane
       Che muore per un sì o per un no.
       Considerate se questa è una donna,
       Senza capelli e senza nome
       Senza più forza di ricordare
       Vuoti gli occhi e freddo il grembo
       Come una rana d’inverno.

 Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

       O vi si sfaccia la casa,
       La malattia vi impedisca,
       I vostri nati torcano il viso da voi.