La violenza illimitata

 

Pierre Hassner, coautore del Libro nero del comunismo, in uno dei saggi contenuti nel volume sottolinea che, “non si vuole sicuramente fare un confronto quantitativo delle vittime, né negare l’unicità della Shoah, né sostenere che i campi sovietici avessero la stessa finalità di sterminio o di disumanizzazione di quelli nazisti […] si tratta piuttosto di interrogare la specificità e le differenze sulla base di una problematica che non può non essere comune e non essere interamente ispirata dallo sgomento dinnanzi a uno stesso fenomeno per quanto diverse ne siano le modalità: il fenomeno della violenza illimitata.”  Soltanto la comparazione permette di far emergere l’unicità dei due orrori.

Proprio il concetto di violenza illimitata rappresenta la chiave di lettura della comparazione, il terreno comune tra nazismo e stalinismo. Lo Stato hitleriano e quello stalinista rappresentano l’esito degenerativo del concetto di Stato. Nato dall’esigenza di tutelare la vita dei cittadini, lo Stato diviene nella versione staliniana e hitleriana lo strumento di selezione dei cittadini. Due “mitologie” diverse che conducono ambedue a orrori innominabili. Sia lo stalinismo che il nazismo ricorrono al concetto di “purezza”

 

                che per Hitler è sostanzialmente biologico-razziale                        mentre per Stalin è ideologico.

 

Nell’uno e nell’altro caso non rientrare nei canoni della “purezza” significa incamminarsi verso il lager o verso il gulag.

Ambedue i sistemi producono un “nemico totale”:

                per Hitler è l’ebraismo,                                                                       per Stalin il capitalismo,

che rappresentano in entrambi i casi l’ostacolo al raggiungimento della felicità,

                che nel nazismo si identifica con la purificazione della razza ariana         e nello stalinismo con la realizzazione piena del socialismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Di fronte a questo nemico i due sistemi elaborano in modo parallelo il rifiuto di ogni barriera di umanità, di freno politico, etico, religioso.

Il punto che avvicina gli orrori indicibili dei due sistemi sta nella negazione dell’individuo come valore, dell’unicità della persona umana. Non c’è spazio per il diritto del singolo né nello stato hitleriano né in quello stalinista.

La violenza del comunismo sovietico è, al contrario, essenzialmente interna alla società, che cerca di sottomettere e disciplinare ma anche trasformare e modernizzare con metodi autoritari, coercitivi e criminali; le vittime dello stalinismo sono quasi tutte dei cittadini sovietici e ciò vale sia per le vittime dei processi e delle epurazioni politiche, sia per le vittime sociali.

La macchina del terrore aveva cominciato a funzionare già con il primo piano di industrializzazione forzata; vittima principali ne erano stati i contadini, ma non vennero risparmiati commercianti, tecnici e dirigenti di partito accusati di sabotare lo sforzo produttivo. Il periodo delle “grandi purghe” ebbe ufficialmente inizio nel 1934, per poi susseguirsi ad un ritmo impressionante, giustificato dalla necessità di combattere traditori e nemici di classe. Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca, condotta nell’arbitrio più assoluto, che colpì milioni di persone e che diede vita ad un immenso universo concentrazionario formato dai campi di lavoro (arcipelago Gulag). In essi la violenza è legata ad un progetto di trasformazione coercitiva e autoritaria della società.

La violenza del nazismo è essenzialmente proiettata verso l’esterno. Dopo una prima, intensa ma rapida fase di “normalizzazione” repressiva della società tedesca, la violenza nazista si scatena nel corso della guerra, a partire dal 1939, come un’ondata di terrore né cieco né indiscriminato ma rigorosamente codificato.

Praticamente inesistente nei confronti di una comunità nazionale razzialmente delimitata e sottomessa, questa violenza diventa estrema nei confronti di categorie umane e sociali escluse dalla comunità del Volk (ebrei, zingari, handicappati, omosessuali), per estendersi poi alle popolazioni slave, ai prigionieri di guerra, ai deportati antifascisti (in corrispondenza a una precisa gerarchia).

La persecuzione antiebraica infatti fu certo la manifestazione più vistosa e più orribile di questa politica razziale, ma non fu certo l’unica. Essa si inquadrava in un più vasto programma di “difesa della razza” che prevedeva, fra l’altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e la soppressione degli infermi di mente classificati come incurabili.

Per quanto invece riguarda specificatamente gli ebrei, la propaganda nazista riuscì semplicemente a risvegliare quei sentimenti di ostilità, contro la diversità etnico religiosa e contro il presunto privilegio economico (essi infatti, pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della scala sociale), che erano largamente diffusi, soprattutto nelle classi popolari, in tutta l’Europa centro-orientale. La discriminazione fu ufficialmente sancita nel settembre 1935 dalle cosiddette leggi di Norimberga, subì un’ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938, soprattutto con la cosiddetta notte dei cristalli e raggiunse il suo culmine a guerra mondiale già iniziata, quando Hitler concepì il progetto mostruoso di una soluzione finale del problema che prevedeva la deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico.

Tutte queste pratiche erano considerate dal nazismo essenziali per mantenere la sanità e l’integrità del “popolo eletto”. Il mito della razza occupò quindi un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo: il tratto demoniaco dell’esperienza stessa sta proprio nell’avere eseguito questo mito con brutale coerenza.
Le camere a gas quindi, diversamente dai campi di lavoro,
esprimono la forma dello sterminio come finalità in sé, inscritta in un disegno di purificazione razziale